Il Cavallo è sempre stato un tema prediletto dagli artisti, simbolo di forza e di potere ma anche di disperazione. Theodore Gericault ne era talmente innamorato da scegliere di arruolarsi per poterli cavalcare. E la sua morte precoce fu dovuta anche alle tante cadute riportate in sella. Se la pittura era la sua prima passione, i cavalli erano più di una semplice ispirazione. Con Gericault siamo nei decenni primi del Romanticismo pittorico.
Con lui il cavallo entra dalla porta principale come elemento artistico tout-cour, metafora quasi immediata di forza e pulsione, romantico, appunto, anche nell’esaltazione dei suoi valori cromatici. Non che l’animale non facesse già in qualche modo da spina dorsale in tutta la lunga vicenda pittorica e scultorea dell’occidente: una vicenda che ha i capisaldi nelle forme frementi dei cavalli a rilievo sul frontone del Partenone di Atene, nelle sculture imperiali di Roma, si perde nella lunga eclissi naturalistica del medioevo per riaffiorare agli albori della pittura moderna, recuperata dal monumentale affresco di Simone Martini che raffigura Guidoriccio da Fogliano nel palazzo pubblico di Siena.
Il cavallo è sempre sinonimo di potenza, o meglio di potere: lo sa Donatello che vi issa il Gattamelata, lo saprà bene Leonardo che con la statua equestre di Francesco Sforza ingaggiò una lunga "battaglia". Il maestro di Vinci, in anticipo sui tempi, voleva un cavallo alitante vita e tutto il dinamismo possibile di un animale ritto sulle zampe posteriori. Purtroppo, avrebbe richiesto una comprensione della natura dell’animale anche superiore alle coeve tecniche di fusione, tanto che il progetto, anche per questo motivo, venne accantonato.
Il monumento equestre, ispirato dal Marco Aurelio e ripreso da Donatello, diventa un canone che non tarda ad entrare in pittura: il cavallo di Tiziano su cui è assiso l’imperatore Carlo V d’Asburgo è però già poco più che un pretesto per esaltare l’armatura, la bardatura, lo status imperiale.
Sarà Caravaggio a riprendersi la nuda verità animale, trattando i cavalli presenti nella conversione di San Paolo con un realismo non decorativo mai raggiunto prima.
Indimenticabile, come simbolo e allusione di ascesa incontrastata è il cavallo imbizzarrito – probabilmente come lo aveva sognato in bronzo Leonardo – guidato con sicurezza da Napoleone sul San Bernardo ritratto da Jacques Louis David.
E poi irrompe Gericault: e con lui un’altra epoca: il suo quadro Il Derby di Epsom, uno dei quadri più noti dell’autore della Zattera della Medusa, indica come sia cambiato il gusto: le corse, gli svaghi nobili o dell’alta borghesia, lo sport, tutti elementi che qualche decennio dopo Degas, Fantin Latour immortalerà definitivamente come paradigmi della nuova bellezza moderna. Ma Gericault non fu solo questo. Furono cavalli e fanti e ussari e trombettieri a cavallo uniti da un unico legame emotivo; ma erano soprattutto cavalli alla staccionata, cavalli in corsa, i famosi berberi della campagna romana,pura forza e puro eros primitivo a se stante senza bisogno di valenze sociali o narrative; basta l' amore per il movimento, per l’anatomia delle bestie, per i contrasti cromatici dei manti e del pelo, pura energia pittorica che si sprigiona.
Nel mezzo ecco una invasione di pittura di genere, con uno stuolo di pittori minori o illustratori che presero a prestito il tema campestre o quello delle corse, dalla straordinaria fioritura per tutto il settecento e l’ottocento.
Ma altri cavalli tornano simboli prepotenti nell’arte del XX secolo: Picasso riconsegna all’animale un significato universale, l’emblema di vittima di un dramma apocalittico ponendolo al centro esatto di Guernica.
Sulla sua scia i cavalli tesi, irti, stilizzati imbizzarriti di Marino Marini, i musi nella polvere, le zampe anteriori drammaticamente piegate, cavalieri inarcati in precario equilibrio, con una raffigurazione lontana dall’idea classica di sicurezza e trionfo, ma emblematica di una paura selvaggia. Paura che impedisce anche il naturale movimento dell’impennata. "Stiamo andando verso la fine del mondo", commentava lo scultore a proposito delle sue bestie spaventate, verso l’impossibilità di dominarlo con la ragione.
Ci ha pensato forse un altro artista e rendere meno cupe le sue previsioni; ed altri cavalli. Quelli che lo scultore greco Kounellis, nel 1969, in piena Arte Povera, espone vivi alla Galleria l’Attico di Roma.
Gli animali in mostra perdono, evidentemente, tutto la loro evidenza estetica.
Hanno anzi una presenza imbarazzante nel contesto di una galleria d’arte. L’intervento dell’artista è al minimo, ma per l’animale è la giusta rivincita dopo secoli di sfruttamento di immagine.
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