Il cavallo nel creato è una preda, l’umano un predatore. La fiducia e l'atletismo condivisi sono un miracolo neurobiologico, parole di Janet Jones, Phd, che applica la ricerca sul cervello allo studio delle interazioni sportive tra equini ed umani. Ha un dottorato di ricerca presso l'Università della California, a Los Angeles, e per 23 anni ha insegnato neuroscienze della percezione, del linguaggio, della memoria e del pensiero. All'inizio della sua carriera addestrò cavalli in una grande scuderia e in seguito gestì con successo un'attività di addestramento di cavalli. Il suo libro, Horse Brain, Human Brain (2020), è attualmente tradotto in sette lingue.

Di cosa tratta la neuroscienza applicata al lavoro con i cavalli

Cavalli e umani eseguono manovre complesse in impieghi, specie sportivi, di ogni tipo. Insieme, dimostrano un atletismo fuori dal comune, non scevvro di rischi per l'incolumità di entrambi gli esseri nel binomio. Il cavallo medio pesa oltre 500 kg, fa movimenti rapidi e può imbizzarrirsi in un batter d'occhio. Per limitare i rischi nell'impiego del cavallo, occorre motivarlo a collaborare senza l'uso della violenza. Ma come è possibile che accada?

La Jones ce lo spiega nel suo libro attingendo alla neuroscienza.

I cavalli, dotati di cervello da preda, e gli esseri umani, dotato di cervello da predatore, condividono segnali in gran parte invisibili attraverso il linguaggio del corpo reciproco. Questi segnali vengono ricevuti e trasmessi attraverso i nervi periferici che portano al midollo spinale di ciascuna parte nel binomio. All'arrivo in ciascun cervello, vengono interpretati e viene generata una risposta appresa. Anch'essa viene trasmessa attraverso il midollo spinale e i nervi. Questa azione neurale collaborativa forma un ciclo di reazione, consentendo la comunicazione da cervello a cervello in tempo reale. Tali conversazioni sottili consentono al cavallo e all'equestre di raggiungere i loro obiettivi immediati nelle prestazioni atletiche e nella vita di tutti i giorni. In pratica, la mente dell'uno si estende oltre la propria pelle nella mente dell'altro, con l’interazione fisica che diventa una sorta di danza neurale.

I cavalli in natura mostrano determinati comportamenti che inducono gli osservatori a chiedersi se le manovre competitive richiedano davvero una comunicazione reciproca tra specie. Ad esempio, il cavallo selvatico salta occasionalmente sopra un ruscello per raggiungere del buon cibo o si arrampica su un pendio per sfuggire ai predatori. Queste manovre potrebbero essere considerate i precursori del salto sportivo o delle passeggiate a cavallo su sentieri accidentati. Se fosse così, potremmo immaginare che le imprese atletiche estreme del cavallo d'élite siano innate, con l'equestre che è semplicemente un addendo che guida dall'alto, e quindi con requisiti minimi per comunicare con il cavallo cosa fare.

Non è così. La prestazione qualitativa richiesta al cavallo nelle competizioni di alto livello trae la sua forza da molti anni di addestramento quotidiano e non è innata. Richiede scuola.

La componente critica del cavallo, con la sua capacità di imparare a interagire in modo così preciso con l'umano, non è data dalla sua prestanza fisica ma dal suo cervello.

La prima immagine precisa tramite risonanza magnetica del cervello di un cavallo è apparsa solo nel 2019, consentendo ai neurologi veterinari una visione molto più approfondita dell’anatomia alla base della funzione mentale equina. Mentre queste nuove informazioni vengono diffuse agli addestratori di cavalli e agli equestri per applicazioni pratiche, assistiamo all’inizio di una rivoluzione nell’equitazione basata sul cervello. Questa rivoluzione non solo porterà la competizione verso vette di successo più elevate e il benessere degli animali verso livelli di comprensione più umani, ma motiverà anche gli scienziati a ricercare la compatibilità unica tra il cervello delle prede e quello dei predatori. In nessun altro posto in natura vediamo una collaborazione così intensa e intima tra due menti così disparate.

Tre caratteristiche naturali del cervello equino sono particolarmente importanti quando si tratta di fondere la mente con gli esseri umani.

Innanzitutto, il cervello del cavallo fornisce un sorprendente rilevamento del tocco. Le cellule recettoriali nella pelle e nei muscoli del cavallo trasducono – o convertono – la pressione esterna, la temperatura e la posizione del corpo in impulsi neurali che il cervello del cavallo può comprendere. Lo fanno con una sensibilità squisita: il cavallo medio può rilevare la pressione minima sulla sua pelle.

In secondo luogo, i cavalli in natura utilizzano il linguaggio del corpo come mezzo principale di comunicazione quotidiana tra loro. Una cavalla alfa deve solo muovere un orecchio verso un subordinato per convincerlo ad allontanarsi dal suo cibo. Un subordinato più giovane, non istruito nel colpo d'orecchio, riceve un linguaggio del corpo più forte: due orecchie appiattite e un morso che fa sanguinare. L’idea che gli animali in natura siano creature gentili che non si fanno mai del male a vicenda è un mito.

In terzo luogo, per natura, il cervello equino è una macchina che apprende. Non ostacolati dal bagaglio sociale e cognitivo che porta con sé il cervello umano, i cavalli imparano in una forma rapida e pura che consente loro di apprendere il significato dei vari segnali umani che modellano il comportamento equino in quel momento. Nel loro insieme, la sensibilità elevata al tocco che caratterizza il cavallo, la naturale dipendenza dal linguaggio del corpo e la purezza dell’apprendimento costituiscono il treppiede di supporto per la comunicazione cervello-cervello nel binomio che è così importante per poter ottenere dai cavalli prestazioni fuori dal comune.

Uno dei motivi per cui nasce il fascino scientifico per la comunicazione neurale tra cavallo e persona è lo status del cavallo come animale da preda.

I cavalli si sono evoluti per sopravvivere a pressioni completamente diverse rispetto alla nostra fisiologia umana. Ad esempio, gli occhi dei cavalli sono posizionati su entrambi i lati della testa per una visione panoramica del mondo e le loro pupille orizzontali consentono una visione chiara lungo l’orizzonte ma una visione sfocata sopra e sotto. I loro occhi ruotano per mantenere la chiarezza lungo l'orizzonte quando le loro teste si trovano lateralmente per raggiungere l'erba in una variabilità di posizioni. I cervelli equini sono programmati per trasmettere comandi direttamente dalla percezione del pericolo ambientale alla corteccia motoria dove viene eseguita l’evasione istantanea dal pericolo potenziale. Tutte queste caratteristiche si sono evolute per consentire al cavallo di sopravvivere ai predatori mediante la fuga.

Al contrario, il cervello umano si è evoluto in parte con lo scopo di predare – cacciare, inseguire, pianificare, combattere e se necessario uccidere per difendersi o sopravvivere – con occhi rivolti in avanti, un’eccellente percezione della profondità e una corteccia prefrontale per strategia e ragione.

Il fatto che i cavalli e gli esseri umani possano comunicare a livello neurale senza la mediazione esterna del linguaggio o di attrezzature è fondamentale per la nostra capacità di avviare l'osmosi tra i cervelli. Selle e briglie vengono utilizzate per comodità e sicurezza, ma le competizioni senza sella e senza briglie dimostrano che non sono necessarie per la comunicazione cervello-cervello tra individui equini ed umani altamente addestrati all'interazione vicendevole.

Il cervello del cavallo è progettato per notare ed eludere i predatori. L'umano è predatore, ma il cavallo domestico non lo fugge, è anzi disposto a condividere la comunicazione neurale. Tutto questo può succedere perché il cavallo comprende la convenienza o opportunità della relazione, comprende cioè il linguaggio umano sottile che discerne attraverso le sue percezioni multisensoriali.

Cavalli ed equestri altamente addestrati al rapporto vicendevole inviano e ricevono segnali neurali utilizzando un linguaggio del corpo sottile. Ad esempio, un equestre può applicare una pressione invisibile con il muscolo interno del polpaccio sinistro per spostare il cavallo lateralmente verso destra. Quella pressione viene avvertita sul fianco del cavallo, nella pelle e nei muscoli, attraverso le cellule recettoriali propriocettive che rilevano la posizione e il movimento del corpo. Quindi il segnale viene trasdotto dalla pressione meccanica all’impulso elettrochimico e condotto dai nervi periferici al midollo spinale del cavallo. Infine, raggiunge la corteccia somatosensoriale, la regione del cervello responsabile dell'interpretazione delle informazioni sensoriali.

Gli addestratori di cavalli trascorrono anni insegnando agli animali le associazioni di pressioni per costruire un linguaggio di comunicazione con loro. Ad esempio, il cavallo impara che una particolare quantità di pressione della gamba, a una certa velocità e posizione, in determinate circostanze, significa “spostarsi lateralmente a destra”. Se il cavallo è adeguatamente addestrato, la sua corteccia motoria provoca esattamente quel movimento.

L’analisi della comunicazione cervello-cervello tra cavalli e esseri umani fa emergere diverse nuove idee degne di nota scientifica. Poiché le nostre menti interagiscono così bene utilizzando le reti neurali, i cavalli e gli esseri umani potrebbero imparare a prendere in prestito segnali neurali dalla parte del binomio il cui cervello offre la funzione più elevata. Ad esempio, i cavalli hanno un campo visivo di 340 gradi quando tengono ferma la testa, rispetto al misero campo di 90 gradi degli esseri umani. Pertanto, i cavalli possono vedere molti oggetti invisibili agli umani. Eppure questi ultimi a volte possono intuire l’esistenza di un oggetto invisibile rilevando le reazioni equine.

Nello specifico, i segnali neurali provenienti dagli occhi del cavallo trasmettono la forma di un oggetto al suo cervello. Questi segnali vengono trasferiti al cervello della persona attraverso un percorso ben stabilito: le cellule recettoriali equine nella retina portano alle cellule rilevatrici equine nella corteccia visiva, che suscitano una reazione motoria equina che viene poi percepita dal corpo umano dell'equestre. Da lì, i segnali neurali del cavallo vengono trasmessi lungo il midollo spinale della persona fino al cavallo. Nasce un ciclo di comunicazione percettiva. Il cervello umano può ora rispondere a livello neurale a qualcosa che non è in grado di vedere, prendendo in prestito il campo visivo superiore del cavallo.

Questi trasferimenti cervello-cervello sono reciproci, quindi il cervello equino che apprende dovrebbe anche essere in grado di prendere in prestito la visione dell'equestre, con la sua percezione della profondità e acuità focale superiori. Questo tipo di interazione neurale si traduce in una squadra composta da cavallo e persona che insieme possono percepire molto più di quanto ciascuna delle parti possa rilevare da sola. In effetti, condividono gli sforzi assegnando il lavoro alla parte le cui competenze sono superiori in un determinato compito.

Esiste un altro tipo di abilità che richiede la simbiosi neurale: condividere attenzione e concentrazione. La vigilanza equina ha permesso ai cavalli di sopravvivere a 56 milioni di anni di evoluzione: dovevano notare leggeri movimenti nell’erba alta o rischiare di diventare la cena di qualche predatore. Di conseguenza, oggi è difficile togliere ai cavalli la paura per qualsiasi stimolo che sorga improvviso nell'ambiente e a loro sconosciuto, soprattutto se si tratta di soggetti giovani e inesperti, a cui non è stato ancora insegnato a ignorare determinate immagini, suoni e odori.

Al contrario, gli esseri umani sono molto più bravi sia nella concentrazione che nella vigilanza. Il cervello del predatore non ha bisogno di notare e reagire istantaneamente a ogni stimolo ambientale. Le distrazioni ostacolerebbero la vigilanza sulle prede per individuare dove andare a colpire. Nella combinazione delle due capacità, vengono a meno le rispettive criticità. Ad esempio, quando cavallo e persona lavorano in un'arena, il cavallo non può farsi distrarre da ogni singolo rumore, odore, movimento che c'è tra altri binomi in campo. Deve fidarsi della calma e fiducia dell'umano che porta in sella che gli comunica che non c'è motivo di fuggire. Al contrario, l'umano deve invece stare attento a cosa succede intorno, perché non può permettersi di perdere il controllo del cavallo perché qualcun altro nei pressi non ha il controllo della propria cavalcatura e irradia insicurezza. Ciascuna parte aiuta l'altra attraverso i propri punti di forza primari.

Tale condivisione diventa automatica con la pratica. Con innumerevoli contatti neurali nel corso del tempo, ciascuna parte invia e riceve messaggi tramite il linguaggio del corpo, avviando quegli automatismi che permettono di creare l'arte equestre.

Infine, è concepibile che i due possano imparare a condividere caratteristiche della funzione esecutiva – la capacità del cervello umano di fissare obiettivi, pianificare i passi per raggiungerli, valutare alternative, prendere decisioni e discriminare i risultati. La funzione esecutiva avviene nella corteccia prefrontale, un'area che non esiste nel cervello equino. I cavalli sono eccellenti nell’imparare, ricordare e comunicare, ma non valutano, decidono, giudicano come fanno gli esseri umani.

L'istinto di fuga è un comportamento equino prominente che potrebbe essere mediato dalla funzione esecutiva umana in un soggetto ben addestrato. Quando un cavallo di taglia media si dà alla fuga da uno stimolo inaspettato, spesso provoca cadute che portano a lesioni o addirittura alla morte. Il cervello del cavallo provoca questa reazione automaticamente attraverso la connessione diretta tra la sua corteccia sensoriale e quella motoria.

La ricerca della sicurezza da incidenti non preventivabili è una delle criticità più importanti da affrontare all'interno della filiera del cavallo.

Sebbene questa possibilità debba ancora essere studiata da una scienza rigorosa, la comunicazione cervello-cervello suggerisce che i cavalli potrebbero imparare a prendere in prestito piccoli barlumi di funzione esecutiva attraverso l’interazione neurale con la corteccia prefrontale umana.

Supponiamo che un cavallo si allontani da un ombrello che si apre all'improvviso. Respirando regolarmente, rilassando i muscoli e flettendo il corpo al ritmo dell'andatura del cavallo, l'equestre calma l'animale usando il linguaggio del corpo. I suoi segnali vengono trasmessi al cervello del cavallo. Il cavallo risponde con un linguaggio del corpo in cui i suoi muscoli si rilassano, la sua testa si abbassa e i suoi occhi spaventati ritornano alle dimensioni normali. L'equestre avverte questi cambiamenti con il suo corpo e trasmette al cavallo la ricezione del messaggio in positivo, predisponendosi all'impulso successivo sul da farsi.

Da qui il passo è brevissimo, ma importante, fino alla trasmissione e ricezione dei segnali neurali tra la corteccia prefrontale umana (che valuta l'ombrello inaspettato) e il cervello del cavallo (che istiga il salto lontano dall'ombrello). In pratica, un cavallo è in grado di ritardare la sua reazione di fuga in attesa dell'interpretazione umana del segnale ambientale: si affida al cervello umano per interpretare lo stimolo, se la relazione tra i due è abbastanza fidata e simbiotica da permetterlo.

La comunicazione cervello-cervello cavalli-persone è un’intricata danza neurale. Queste due specie, una preda e un predatore, vivono temporaneamente l'una nel cervello dell'altra, condividendo informazioni neurali avanti e indietro in tempo reale senza mediazioni linguistiche o meccaniche. È una partnership come nessun'altra. Insieme, una squadra composta da un cavallo e da un essere umano sperimentano una comprensione del mondo percettiva e attenzionale più ricca di quella che ciascun essere può ottenere da solo.

Questa mente estesa interspecie funziona bene non perché i due cervelli siano simili tra loro, ma perché sono così diversi.

Riferimenti sulla fonte:

https://janet-jones.com/