Un argomento che attualmente tira, in campo ambientalista, è come l'individuo possa fare la differenza scegliendo non solo come vestirsi, ma anche come essere un manifesto vivente delle scelte etiche di consumo.
Abbiamo recentemente assistito alla presentazione delle nuove collezioni, delle passerelle e dei gala, dove marchi che fanno lavorare persone in condizioni disumane nei paesi del terzo mondo cercano di rifilare al pubblico il loro #fastfashion tinto del #greenwashing e #socialwashing.
La moda tutta cerca di darsi un tono "sostenibile", e improvvisamente sorgono claim per prodotti di ogni brand che rivendicano:
- impatto sociale positivo
- materiali riutilizzati
- preservazione delle acque
- ridotte emissioni
- protezione degli animali
Contemporaneamente, i fashionist ambientalisti, diffondono i webinar per vestire l'attivismo, aprendo lo sguardo alla moda come industria integrante di un sistema capitalista, suprematista bianco, patriarcale, eteronormativo, razzista e dedicato allo spreco; invitando i followers a pensare prima di vestirsi e indossare vestiti come mezzo per essere attivisti oltre i consumi, non dando credito ai tentativi della moda consumistica di tingersi di verde con certificazioni discutibili.
In questo senso, greenwashing è diventato sinonimo di strategie di comunicazione e marketing sleali, messe in atto da alcune imprese per “tingersi di verde”. L’intento è quello di diffondendere un’immagine positiva delle proprie attività per ottenere, agli occhi dei consumatori, un posizionamento basato impropriamente sulla sostenibilità ambientale.
Si tratta, in breve, di un uso disinvolto della comunicazione, con il fine ultimo di distogliere l’attenzione del pubblico dalle dinamiche aziendali nel loro complesso – spesso poco o per nulla riconducibili a condotte rispettose di lavoratori e ambiente, tramite il ricorso a claim ecologici, immagini della natura incontaminata e verde nelle grafiche, quando oltre l'immagine c'è il vuoto di contenuti.
Per evitare il rischio greenwashing serve, avvisano gli attivisti della moda sostenibile, non solo da parte dell’azienda, ma di tutti gli stakeholder, una concreta cultura della sostenibilità. Fondamentale è una forte propensione alla trasparenza.
Secondo i numeri rivelati recentemente dalla Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite , la moda è responsabile del 20% dello spreco globale di acqua e del 10% delle emissioni di anidride carbonica. E non bisogna dimenticare le emissioni di gas serra dovute agli spostamenti delle merci da un capo all’altro del mondo. Alle coltivazioni di cotone si deve, inoltre, l'utilizzo di ben il 24% degli insetticidi usati nel mondo e dell’11% di pesticidi.
Una tendenza che va invertita a qualunque costo, anche secondo la percezione dei consumatori più attenti. Sembra infatti che due terzi dei consumatori mondiali eviterebbero o boicotterebbero i brand che basano il loro business su posizioni controverse. Sono i dati a dimostrare che molta gente è disposta a spendere di più per singolo acquisto e comprare di meno, limitandosi a ciò che è realmente sostenibile.
Una linea di condotta etica, trasparente e uniforme a livello di certificazioni è dunque il primo presupposto fondamentale per un cambio di rotta in cui estetica ed etica vadano finalmente di pari passo, ma servirebbe una legge quadro che disciplini le etichette, perché l'autocertificazione ben si presta alle operazioni di greenwashing.
Sono ancora pochi i marchi che rendono disponibili informazioni dettagliate sull’origine dei loro prodotti - non solo dove sono stati cuciti, ma da dove arriva la materia prima, come e da chi è stata coltivata o realizzata, come è stata processata.
Una vera etichetta ambientalista infatti, non tiene solo conto dell'impatto della chimica nell'abito, ma anche di come sono trattati i lavoratori di filiera, chi sono, dove lavorano, quale trattamento retributivo hanno, se hanno un trattamento pensionistico. A nulla serve reclamare una maglietta come ecologica, per risparmio di acqua nella produzione di quel cotone, se viene tessuta da minorenni in una fabbrica del Bangladesh, a cui è negata ogni tutela.
Il fatto positivo è che chiunque può essere ambientalista e animalista nella moda, basta dunque interessarsi alla tracciabilità di cosa si indossa, consumare meno, ma consumare meglio.
#modaecologica #slowfashion #saicosaindossi #indossaetico