Sport e diritto umano alla felicità appaiono direttamente correlati nella loro accezione positiva.

Almeno nella ricerca di Jorge Knijnik, professore associato presso la Western Sydney University, specialista su temi di giustizia sociale, diritti umani e inclusione sociale. Jorge ha trascorso molto tempo nei bassifondi del suo paese d'origine (Brasile), dove vi sono violazioni sistematiche estese  - tra cui abusi anche gravi sui minori - arrivando a comprendere meglio quali sport - e condotti come - possono svolgere una funzione sociale positiva nel combattere discriminazione e marginalità. Il suo lavoro pedagogico ha avuto due importanti premi: Building the Gender Equality assegnato dal Consiglio brasiliano per la ricerca e UN-WOMEN dal Ministero della Pubblica Istruzione in Australia.

In uno studio specifico, Jorge rileva come, anche in un programma sportivo il cui obiettivo principale è quello di trovare grandi talenti per il futuro, la specializzazione precoce per l'agonismo è eticamente insostenibile, perché con i suoi metodi può causare lesioni fisiche e psicologiche ai giovani atleti. Non solo, la specializzazione precoce finalizzata alle gare ostacola lo sviluppo dell'atleta, favorendo automatismi che distruggono il pensiero critico, quando oggi sono necessari atleti creativi con molta visione e flessibilità di pensiero.

Pertanto, se pensiamo ai bambini come a un gruppo di esseri umani con diritti specifici per la loro fascia d'età - il diritto di imparare, evolvere, sviluppare, presente e futuro - e persino il diritto di sognare di conquistarsi un futuro come atleti apprezzati, dobbiamo concludere che lo sport può essere un ottimo veicolo per la promozione della dignità e della felicità umana solo a patto che i bambini non siano introdotti subito alla specializzazione e all'agonismo che discriminano ed escludono i più deboli, per una ragione o per l'altra, fomentando la cultura dello scarto e il bullismo.

Secondo il ricercatore, l'agonismo forzato e precoce non solo non promuove la felicità individuale, ma ostacola la pace sociale e la comprensione tra persone.

Riferimenti allo studio: Knijnik, Jorge. “Direitos Humanos e Especialização Esportiva Precoce: Considerações Metodológicas e Filosóficas. .” Especialização Esportiva Precoce: Perspectivas Atuais Da Psicologia Do Esporte, 2008.


Purtroppo negli sport equestri il problema è rilevante quando l'unico scopo dell'avere un cavallo viene fatto passare come quello di gareggiare.

Questa spinta all'agonismo forzato perché massimizza i profitti dell'industria equestre non è solo un modello astratto che fa grandi danni, ma si è tradotto in norme e indirizzi speculativi, abbruttendo l'equitazione e riducendo i cavalli a oggetti di scambio e le giovani leve umane a "bestiame" da mungere intensivamente. 

L'equitazione non dovrebbe essere vissuta come campionato sportivo, dove per ottenere riconoscimento occorre a tutti i costi gareggiare anche nei tornei giovanili.

Essa dovrebbe essere vissuta, innanzitutto, come attività amatoriale che può avere benefici sia per il corpo sia per la mente, che si conduce con altri esseri viventi, i cavalli, esseri senzienti, non mezzi. Questa dovrebbe essere la normalità e l'agonismo, visti anche i costi, sia economici sia di vite buttate vie, quelle dei cavalli che non ce la fanno a raggiungere risultati degni di nota, dovrebbe essere lo straordinario. 

L'idea che, perché sia riconosciuta la dignità dell'attività equestre, si debba gareggiare e vincere è non solo disfunzionale ad uno sport che ambirebbe a maggiore consenso sociale e sponsorizzazioni, ma anche disincentivante a lungo andare per la diffusione della base e l'inclusione sociale.

L'accanimento agonistico crea il terreno per ampia frustrazione, essendo per sua natura escludente.

Pochi infatti hanno il substrato per vincere: ovvero tempo libero a iosa per attività non di studio o lavoro, quindi improduttive, di dispendio economico notevole. Tutti gli altri sono destinati a fare da "panchina".  Per il cavallo l'esclusione dal circuito può comportare di peggio: l'abbattimento.

Il modello di equitazione socialmente utile per i normodotati in età pediatrica è l'equitazione amatoriale e ricreativa, cioè inclusiva.

In equitazione si dovrebbe coltivare, soprattutto tra i giovani, la capacità di buon governo in salute e benessere del cavallo a terra e a sella, senza porre particolare enfasi sull'agonismo precoce.

Accanto a ciò, quello che andrebbe incentivato è punire chi sbaglia, perché passi il messaggio, socialmente utile, che non importa solo vincere, ma anche come. 

Infine, ci dovrebbero essere meccanismi compensativi contro la cultura dello scarto.

In particolare, un programma di equità e pace sociale dovrebbe includere:

  • sistemi di recupero e riabilitazione di cavalli infortunati o a fine carriera sportiva,
  • sistemi di sostegno alla meritocrazia che premino atleti umani qualitativi ma privi delle risorse economiche necessarie per avanzare.

In mancanza sistematica di ciò, non stupisce come gli sport equestri possano generare tanto risentimento nella massa, per definizione esclusa, che ne chiede l'abolizione dai giochi olimpici in quanto sport non per tutti, ma solo per una casta di ricchi non rappresentativi del popolo al quale i giochi olimpici - astrattamente - sarebbero dedicati.

In conclusione, il modello attuale che permea gli sport equestri - nella sua accezione negativa - tende a essere vuoto dal punto di vista valoriale, esprimendo poca innovazione, anche sociale, e confermandosi controproducente dal punto di vista della diffusione della pratica equestre perché è escludente, ancor più che esclusivo. Proiettato sui giovani e sui bambini tale modello non sviluppa felicità ed è eticamente insostenibile.